il mio lavoro in aspirina

di Loretta Borrelli

Se è gratis perché lo chiami lavoro? è una domanda che di solito non prevede una risposta, fatta per mettere in evidenza un’equazione troppo scontata: il lavoro è una merce e come tale viene venduto a un prezzo, altrimenti non è lavoro.
Da molti anni il femminismo ha dimostrato come questa equazione sia errata. Negli ultimi tempi questa domanda è diventata sempre più ambigua per tutte e tutti. Nei lavori creativi e intellettuali l’assenza di una retribuzione è diffusa, non più relegata a quella gavetta che dava la speranza di accedere al lavoro desiderato. I tempi e i modi del lavoro non pagato sono molto cambiati, e molto spesso si lavora senza esserne consapevoli.
Continuare a fare ciò che ci piace nonostante condizioni avverse, non è una scelta solo di chi ha un approdo sicuro. È una scelta, a volte coraggiosa, che mette al centro il
proprio desiderio.
Piuttosto che chiamarlo gratuito, sarebbe utile chiamarlo lavoro volontario.
La volontarietà, però, non è scarnamente definibile come la capacità di scegliere e realizzare qualcosa.
Questa volontà è strettamente intrecciata con il senso delle cose e la cultura che circonda la persona che la mette in atto. Il mercato del lavoro in questi anni tende sempre più a isolare le persone e le spinge verso l’autopromozione e il desiderio di visibilità.
Il
self branding è la nuova formula di autorialità propagandata per costruirsi una professionalità. Gli strumenti a disposizione sono molti: dagli ormai vecchi siti personali fino a un’attività smodata sui social network. Si costruisce la propria identità online, si producono lavori per farli circolare il più possibile e aumentare il numero di seguaci, nell’attesa che un colpo di fortuna porti qualche grande testata giornalistica a condividere e ritwittare.

C’è chi sostiene che ci troviamo ormai in un sistema economico che ha messo a valore ogni aspetto della vita quotidiana.
Un’analisi di questo tipo è un abbaglio, utile a nascondere molti giochi al ribasso. Sono tutte menzogne, ci troviamo di fronte a categorie vuote e strumentali. Il cambiamento più grande nel mercato del lavoro è stato una smisurata e compulsiva diffusione di informazione. La quantità di “mi piace”, il numero di “re-tweet”, la massa di utenti raggiunti, il numero di accessi e visitatori unici in un sito, tutti questi numeri producono un’enorme quantità di denaro. Non conta quanto tempo durino i passaggi, cioè l’attenzione su di un contenuto, l’importante è che siano numerosi. L’idea dominante è che per costruire la propria immagine professionale si debba seguire questo meccanismo.
Credere che la qualità del lavoro possa fare la differenza, è un’illusione. Si tratta sempre e solo di dati che devono circolare il più possibile per mantenere attiva una macchina che crea soldi dal niente. Sono solo questi numeri a creare profitto per i social network e per le multinazionali online. In Finlandia, Alaska, Oklahoma enormi edifici, estesi come interi quartieri, archiviano i dati. Sono i grandi database di Google, Facebook, Twitter e Amazon. Aree desolate che hanno bisogno di un lavoro che le tenga attive, un lavoro incessante che forniamo gratuitamente noi utenti. In questa interazione globale operano fianco a fianco lavoro volontario e lavoro gratuito.

I nuovi padroni del web forniscono strumenti apparentemente gratuiti, che noi utenti paghiamo senza saperlo, fornendo contenuti in modo distratto e automatico.
Il sogno che il neoliberismo ha realizzato è accentrare capitali esorbitanti nella mani di pochi e far lavorare miliardi di persone senza pagarle.
Proviamo a chiamare le interazioni che noi utenti abbiamo con quelle interfacce per quello che sono: un lavoro per le aziende che forniscono i servizi. Affermare questo ribalta il senso di molte domande che ci affliggono. Come mai si dà per scontato che un lavoro non venga pagato? Come mai crollano interi settori, soprattutto legati all’informazione e all’editoria? Perché lavoro gratuitamente per queste aziende?

Aspirina non è estranea a queste problematiche. Fin dai primi passi ci siamo definite lavoratrici volontarie, per mettere al centro il desiderio che muove quello che facciamo al di là della possibilità di compensi. I contenuti della rivista sono liberamente accessibili ma non per questo condividiamo la retorica della gratuità del web.
Ora mi sembra importante raccontare questa esperienza perché,
nonostante l’idea diffusa di un funzionamento standard della tecnologia, è possibile sperimentare un modo diverso di essere nel digitale, sottraendosi in qualche misura all’accentramento di potere nelle mani di pochi.
Inizialmente,
per evitare di dare una valore eccessivo alla competenza tecnologica e quindi creare barriere, abbiamo scelto strumenti accessibili, che potessero essere utilizzati da ognuna secondo le proprie esigenze. Si è trattato di un percorso di formazione reciproca. Alla produzione continua di contenuti abbiamo preferito la periodicità, una scelta che va in controtendenza rispetto ai meccanismi obbligati degli ultimi anni. Invece che l’aspetto standard che ormai adottano diversi siti online, cioè quello del blog e della sequenza di news, abbiamo studiato come rendere l’unità di una rivista sfogliabile. L’impaginato è pensato partendo dalla carta e non dipende dall’interfaccia informatica a cui si relaziona in una seconda fase. Il rapporto con i social network è stato da subito problematizzato. Abbiamo discusso sull’eventualità di rendere condivisibili i singoli contenuti della rivista, ma abbiamo preferito impedirne la separazione. Ci siamo ingegnate per comunicare in quei canali senza cadere nella trappola della condivisone automatica.

Aspirina tiene in gran conto l’autorialità soggettiva e grazie a intense relazioni si trasforma in un’opera corale. Proprio le relazioni in questi anni sono state l’elemento fondamentale per la riuscita della rivista. Abbiamo previsto una serie di incontri redazionali allargati per conoscere di persona le autrici quando possibile. La redazione ristretta è in costante contatto, discutiamo molto sulle singole decisioni tramite poche email, telefonate fiume e molti incontri. Questo comporta fatica e spinge ad agire pensando. Mi ha portato alla consapevolezza della forza che può avere la scelta consapevole di soluzioni tecnologiche che tengano in maggiore conto i desideri e le relazioni in piccoli gruppi. Questo lavoro credo possa fare la differenza e creare nuovi spazi di contrattazione non solo economica, perché per fortuna non tutto il lavoro è merce.

Milano, marzo 2015