quando la misantropa diventa seriosa

di Margherita Giacobino

FAMIGLIE, DIRITTI E FIGLI

Luguaglianza

La lotta delle donne, dei neri, delle minoranze, si è sempre svolta – anche – sulla questione dei diritti. Diritto di voto, di pari salario, di libertà personale, diritti civili.
È
una lotta fondamentale, di solito preliminare a qualunque altra.
Per
ò la nozione di diritto varia a seconda dei tempi e dei luoghi.

Nella Germania nazista ogni cittadino ariano aveva il diritto di maltrattare e derubare gli ebrei. Nella Grecia di Pericle ogni cittadino (=uomo abbiente) aveva diritto di ammazzare i suoi schiavi, le sue donne, i suoi figli esattamente come le sue pecore.
Nella nostra società di oggi, ognuno di noi ha il diritto di mangiare carne di animali allevati e uccisi in modo brutale. O di abbattere un albero sano per cementificare il cortile della casa di campagna.
Cose, queste ultime, che non scandalizzeranno la maggior parte della gente.

Esistono diritti economici, per es. il diritto alla pensione. Nei decenni passati, molti cittadini italiani, soprattutto donne, hanno fruito delle baby-pensioni come di un diritto. Adesso sappiamo, se abbiamo voglia di saperlo, che era un diritto ingiusto, o quantomeno ingiustificato dallo stato reale delle finanze pubbliche.
Si sentono in colpa, quelle che hanno percepito pensioni assolutamente sproporzionate al versato, rispetto a tutti coloro che adesso, avendo versato molto di più, riceveranno molto di meno?
Penso di no. Era un diritto. Colpa del legislatore imprevidente.
Daltra parte, non venivano, negli stessi anni, usati i soldi pubblici per soccorrere i poveri industriali, erogando cassa integrazione ai loro operai licenziandi?

A parte i diritti umani fondamentali sui quali – a parole – tutti sono daccordo (diritto alla vita, alla libertà personale, a un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, a esprimere la propria opinione, alluguaglianza di fronte alla legge) e che comunque non vengono rispettati neanche qui, esistono altri diritti più relativi.
A volte tendiamo perfino a confondere diritto e possibilit
à. O diritto e privilegio.
Poich
é si può fare una cosa, e molti la fanno, perché io no?
Noi oggi tendiamo a rivendicare l
uguaglianza come un diritto, a volte senza chiederci: uguali a chi, in cosa, perché? Ma è davvero desiderabile essere uguali?

Vorrei distinguere tra il diritto di non discriminazione di fronte alla legge e alla società (che mi appare tra quelli fondamentali), e il diritto di essere uguali.
Quando vedo i cartelli, le bandierine, che proclamano
stesso amore, stessi diritti, mi viene da pensare: mamma mia, come siamo caduti in basso.

Ma questo amore a cui ci proclamiamo uguali, è tanto bello?
Queste famiglie etero, in cui capita che il pap
à ammazzi la moglie e i figli, o qualche volta è la mamma ad ammazzare i figli, o i figli (se sopravvivono) sparano ai genitori – oppure in casi meno vistosi ma pur sempre dolorosi, molti figli si portano dietro per anni, forse per sempre, le cicatrici di rapporti di potere, di ricatto, di imposizione di ruoli e aspettative, ecc
Però in questo momento la comunità sembra concentrata nel rivendicare luguaglianza.

Al contempo, come sempre accade quando si rivendica uguaglianza, non basta dimostrare che siamo uguali, bisogna dimostrare che siamo più uguali.
Siamo famiglie pi
ù stabili, più attente, i figli sono più desiderati.
Stiamo celebrando il funerale del senso critico.

La critica alla famiglia tradizionale, che negli anni 70 furoreggiava, è defunta – non perché la famiglia tradizionale, nel frattempo, sia migliorata.
Non sto parlando di essere migliori o peggiori di
loro, ma della visione per cui ci si muove, si protesta, si combatte.
L
emulazione dellesistente limita gravemente la nostra immaginazione: pare che non sappiamo più concepire una famiglia che non sia composta da due genitori – e che viva, come tutte le altre famiglie, in un appartamento di città, magari con il privilegio di una seconda casa in località con aria più ossigenata, e uno, o entrambi i genitori, che corrono qua e là ad accompagnare i bambini a scuola, a nuoto, a danza ecc
Invece di immaginare, per esempio, pi
ù asili, scuole che funzionano meglio, famiglie più variegate e allargate, comunità in cui ci sia più scambio tra le età e le diverse esperienze.
Sarebbe, certo, molto pi
ù difficile, faticoso – utopistico.

Molte cose che noi oggi abbiamo sono state utopie, in passato.
Molte cose che noi oggi abbiamo sono incubi, ancora adesso.

Perché si vuole un figlio?

La sessualità pervade tutto il nostro essere, fin da bambini, pur se in modi e gradi diversi per ciascuno, e chiede di essere vissuta, e dà voce e colore non solo al desiderio erotico ma alla visione di sé e della vita – al punto che, per ognuno di noi non viverla, o non viverla nel modo che ci è più congeniale, rappresenta una mutilazione.

Sono arrivata ormai da tempo alla placida conclusione che chiunque mi rivolgesse la domanda: perché sei lesbica? non meriterebbe risposta.
Perch
é è una domanda che non va fatta. Implica la concezione che esiste una strada maestra, e che io me ne sono allontanata.
Come potrei, a chi me la rivolgesse, spiegare che per me la strada maestra
è questa? che non ci sono strade se non quelle che ciascuno vede davanti a sé?
Che tutte queste strade fanno parte delle possibilit
à insite nellumano?
Dice Lorde: l
oppresso non ha lobbligo di educare il suo oppressore. Basta, perdere tempo a spiegarti perché mi stai opprimendo.
Liberarsi da quell
obbligo, in una società come la nostra, dove le libertà individuali sono relativamente garantite, significa spesso liberarsi dalla fetta più grande di quella specifica oppressione.
Che siano gli altri a capirmi, se vogliono.
Rifiutarsi di parlare la lingua delloppressore non significa chiudersi al dialogo, ma riportare il discorso nei termini corretti, evitare stravolgimenti che stroncano alla radice qualunque confronto reale.

Sulla base di queste riflessioni, e accostando il diritto a vivere la propria sessualità a quello di avere figli, ho ricacciato indietro la domanda che mi veniva in mente: ma perché si vuole un figlio?
(Io non ho mai voluto fare un figlio, tranne per un brevissimo periodo della mia giovent
ù, per motivi legati a una storia damore infelice. Per fortuna il buon senso non mi ha abbandonata e non ne ho fatto niente.)

Mi sono detta: è una domanda che non è lecito formulare. La possibilità generativa è parte della natura umana, come la sessualità.

Però
Poi ho guardato a loro, gli etero, quelli che sono oggetto della nostra richiesta di uguaglianza.
Agli etero, quando fanno lamore, può capitare in modo naturale(cioè non voluto, non cercato) di concepire figli. Anche se è lultima cosa che vorrebbero. Anche se non è amore ma violenza, o sesso casuale.

Ai non etero non capita. Non sono costretti a prendere precauzioni in questo senso, o decisioni sofferte come quella di abortire.

A chi non ha rapporti eterosessuali (Pasolini direbbe: a chi non pratica il coito) per avere un figlio occorre mettere in campo un desiderio a sé stante, svincolato dalla nostra vita sessuale quotidiana, nella quale il sesso non è generativo.
E dunque, l
à dove esiste un desiderio a sé stante, non collegato ad alcuna nozione di casualità degli eventi, di possibilità o di fortuna – deve per forza entrare in gioco la volontà.

E dove entra in campo la volontà può, e deve, precederla il pensiero.
E quindi
è lecito chiedere: perché volere un figlio?
Una domanda che dovrebbero farsi tutti, ovviamente. A cominciare da quelli per cui la possibilit
à di concepire è fisiologicamente connaturata alla pratica del sesso.

Oggi per una giovane donna eterosessuale nella nostra società lidea di avere un figlio si colloca allinterno di una costellazione mentale in cui entrano certamente in gioco alcune, o tante, di queste immagini psichiche: vivere lesperienza della maternità, dar sfogo alla propria capacità di amore e tenerezza, coronare lunione con luomo amato, dare un nipotino ai genitori, acquisire status come madre, rinsaldare un rapporto che si sta incrinando, rivivere la propria vita al meglio attraverso il figlio, obbedire a un comando divino o a un destino fisiologico, far contento il marito, normalizzarsi, dare un senso alla propria vita, ancorarsi, avere un compito, essere come tutte le altre, acquisire cittadinanza nel mondo degli adulti, rispondere allangoscia del tempo che passa, eccecc
In passato – in passato? – i figli si mettevano al mondo per dare un erede al trono o al feudo, per mandarli a lavorare nei campi, per avere qualcuno che si occupasse dei genitori nella vecchiaia, perché la contraccezione è peccato, perché il marito vuole il maschio e quindi la moglie è condannata a generare femmine finché non arriva il sospirato maschio ecc

Insomma gli etero mettono al mondo i figli naturalmentema allo stesso tempo per una moltitudine di circostanze e di ragioni le quali finiscono più o meno tutte per partecipare dello stesso status di naturalità’ anche quando a chi arrivasse da Marte a osservare le nostre usanze potrebbero apparire insensate e/o crudeli.

Nel pensiero collettivo, i figli sono una risorsa, un investimento nel futuro, un tentativo di dare scacco alla morte dellindividuo, un mettere in salvo il patrimonio genetico e le illusioni di immortalità.
Di fatto, sono una scommessa continua con la sorte, che spesso si tenta di vincere in modi scorretti, violenti (quando i figli si rifiutano di essere quel che i genitori vogliono che essi siano).
E che sempre più, oggi, si tenta di taroccare ab ovo con le tecnologie genetiche – il tempo dirà se con migliori risultati. Personalmente sono scettica.

O, rovesciando il punto di vista, i figli sono anche il modo in cui la specie dà continuamente scacco allindividuo – facendo di esso un mero portatore di DNA, un semplice anello della catena.

Quello che la chiesa ci ripete continuamente: lindividuo è il mezzo, la specie è il fine. E se è solo un mezzo, gli si può e deve chiedere di sacrificare i suoi desideri, le sue passioni e aspirazioni in nome di qualcosa di più grande.

Quando io ero piccola, al mondo cerano circa tre miliardi di esseri umani. Oggi sono quasi sette miliardi e mezzo, eppure pochi, mi pare, si chiedono : perché questa smania di fare figli, in un mondo che brulica?
In Italia c
’è la crescita zero, dicono.
Bisogna avere pi
ù figli perché ci paghino le pensioni. Perché i bianchi non siano sopraffatti dai neri.
Quali pensioni, se non hanno lavoro?
E perché dovrebbe disturbarmi il pensiero che tra cinquantanni – o magari anche dieci, me viva – sarò circondata da facce di un colore diverso?
Tanti anni fa, a San Francisco, vedendo facce cui non sapevo attribuire una
razza, pelli color cioccolata con capelli crespi e biondi, occhi asiatici sposati a labbra africane, ho pensato che questa bellezza potesse essere il futuro che ci aspettava, e ho provato gioia.

I tempi sono cambiati, oggi il nero che avanza non è quello della pelle, ma quello delle divise di morte, dei sudari esplosivi delle donne negate.
Ma la guerra
è ancora un motivo per fare figli? la guerra diventata distruzione di massa e terrorismo? Meno che mai, direi.

Chiunque, etero e non, dovrebbe riflettere, prima di fare un figlio. Non certo per dire (sarebbe solo unaltra forma di stupidità, un nascondere le vere ragioni sotto un motivo esterno): non faccio figli perché il mondo è brutto, sovrappopolato, sta per finire ecc
Ma solo per non dare per scontato che volere un figlio è un desiderio sacro, su cui è tabù mettere la lente dello scrutinio.
Se, esaminando il mio desiderio di mettere al mondo un figlio, scoprissi che
è legato a un bisogno di realizzare me stessa, di superare una crisi, di rispecchiarmi, di curare le ferite del passato – o di dare risposta a richieste familiari, o del partner, o altre ragioni che potrebbero essere temporanee, o insufficienti a fare di me una buona madre – potrebbe anche verificarsi che il mio desiderio scompaia, o si modifichi, che io trovi quello che cerco in altre cose.
Come potrebbe anche essere che alla fine quel figlio io lo faccio comunque, perch
é le mie ragioni mi appaiono forti e valide, e perché sono abbastanza forte anchio da affidarmi al caso – che sempre presiede alla nascita dei figli, siano essi fortemente voluti o no.

Mi si dirà – lo diranno soprattutto le donne – che chi ha fatto esperienza di maternità al di fuori delleterosessualità questo esame delle sue ragioni lo ha fatto.
Io non ne dubito.
Penso però che più diventa fattibile, o perfino facile, soddisfare un desiderio, meno si tende a pensarci su.
Un po
come il cambio di sesso. Se immagino che in una società iper-tollerante sia consentito a un adolescente cambiare sesso, come è possibile tingersi i capelli di rosa, posso immaginare un ventenne pentito o frustrato, che non può tornare indietro – a meno che in quella società il cambio di sesso non sia diventato una cosa talmente consumistica da potersi rinnovare come le tinte per capelli.

E poi ci sono altre domande che ci si dovrebbe fare, tipo: cosa darò e chiederò a mio figlio? come lo educherò? cosa cercherò di trasmettergli?
È
possibile che, se mio figlio diventa un conformista, un qualunquista, un oppressore consapevole o inconsapevole degli altri – questo non sia colpa mia. Però io devo fare tutto quello che posso perché questo non accada.

E soprattutto: sono adatta a essere madre? Se uno non se lo chiede, fare un figlio è velleitario.
Anche un maschio omosessuale dovrebbe farsi la stessa domanda: sono adatto a essere madre?
Perché se il ruolo del padre ormai da qualche secolo o millennio è dubbio nelle nostre società, quello della madre è ancora estremamente reale, pur se malissimamente definito.
È
quella che fa le pappe, pulisce i sederini, si alza di notte, somministra le cure, culla e rassicura e accarezza, quella che parla col linguaggio del corpo, che insegna le prime parole, quella che misura quotidianamente la dolorosa inadeguatezza dellamore.

Penso che anche un maschio può essere madre, se è adatto e lo vuole, penso che sia anche una bella esperienza per un maschio essere madre – con tutti i patemi e le incertezze che questa funzione comporta – forse più tras-formativa che un cambio di sesso.

Oggi parlando di figli e famiglie si parla solo di amore, non di educazione, pensiero, cultura e civiltà. Lamore è una parola sputtanatissima.
Quanti genitori hanno amato i figli – e fatto di loro degli infelici?

Se noi non siamo in grado di fare di meglio di quanto facciano tanti genitori naturali, abbiamo il diritto di fare, soltanto, lo stesso?
Si pu
ò chiamarlo diritto?

Quale comunità?

Anni fa, una donna (lesbica part-time) espresse un giudizio, non ricordo più a proposito di cosa, che suonava più o meno così: le lesbiche dovrebbero essere migliori.
Fui stupita dall
intensità e prontezza della mia reazione di protesta. Irritata, le dissi che non era affato vero, che le lesbiche non erano tenute a essere migliori, più colte, più responsabili, più intelligenti, più qualunque cosa. Che anche le oche hanno il diritto di essere lesbiche.
Che lei non aveva il diritto di indignarsi di pi
ù per una lesbica stupida che per una etero stupida, né di richiedere a me di essere migliore di lei, di pensare che le mie pretese allesistenza erano giustificate solo se io ero più brava, più intelligente e colta della media.
Di questo sono ancora persuasa.

Esprimere la propria sessualità, senza violare la libertà altrui, è un diritto di tutti. Anche di quelli che non mi piacciono.
Ma se
è vero che anche le oche hanno il diritto di essere lesbiche, di converso sarà pure vero che anche le lesbiche hanno il diritto di essere oche.
Mi batterei, per questo diritto?
Forse sì, vista la mia reazione accesa allaffermazione di quella mia amica – ma sarebbe una ben triste lotta, come specchiarmi in uno specchio deformante – se non ci fosse dallaltro lato un altro specchio, che mi rimanda immagini più belle.

Qualcuno ha detto: il mondo sarà cambiato quando non faranno carriera solo le donne migliori, ma anche le mediocri.
In effetti, a me pare che si tratterebbe di un caso quanto mai gattopardesco: il mondo sarebbe cambiato per restare pi
ù o meno uguale.

E forse a questo un pobisogna rassegnarsi

Da umorista, so che ciascuno di noi ha diritto alla sua personale dose di stupidità. La stupidità confina con la meraviglia, costituisce una meravigliosa riserva di stupore, parola con cui ha in comune la radice.
Per
ò quel che è bello, quel che fa la vita degna di essere vissuta, è pensare. Entrare in continuo dialogo, in continua lotta, a volte giocosa a volte seria, con la stupidità.

La stupidità è lelemento pesante del mentale. Così come i metalli sono quello della terra. E come i metalli è trasformabile, a prezzo di lavoro e visione, in tantissime cose utili. Inoltre, se il pensiero è un continuo processo di alleggerimento, una trasformazione e un moto verso lalto, la stupidità è il necessario contrappeso, che ci àncora al basso.
Se la stupidit
à è un diritto, il pensiero è un dovere.

Oltreché una necessità.
L
episodio con la mia amica e la mia reazione mi hanno reso chiara unambivalenza importante: ci sono sempre due specchi per specchiarsi. Almeno due.
E non si pu
ò ignorarne uno.
Due comunit
à, una in cui si è di casa, una in cui si è estranee.

Quando sento di appartenere a una comunità, e allo stesso tempo di non appartenerci, quando rispecchiarmi mi commuove e mi ispira – e allo stesso tempo mi irrita profondamente e mi rende impaziente, o addirittura mi amareggia e mi ferisce – è allora che vivo la mia condizione autentica.

Dice Audre Lorde che lei si sentiva sempre outsider in tutte le comunità di cui faceva parte: donne, neri, omosessuali.
In tutte portava scompiglio, con le sue idee di confine, idee di una che era donna ma anche nera ma anche lesbica, ma anche poeta, ma anche pensante. E quindi vedeva la parzialit
à delle singole lotte, le pantere nere erano sessiste e omofobe, le femministe si rivolgevano solo alle donne bianche di classe media, e così via.
Non che succedesse solo nell
America dei decenni scorsi.

Oggi per esempio in Italia il movimento che si esprime nel frullato di lettere lgbtq (e una dovrebbe sempre scusarsi se ne dimentica qualcuna) esprime sostanzialmente istanze di normalizzazione e integrazione alla classe media, ed è dominato da voci maschili.
Per esempio, non mi pare che si siano levate voci femminili a parlare della specificit
à dellessere mamme lesbiche.
A me sembra invece importante che proprio quella voce l
ì parli per sé, perché le donne hanno sicuramente unesperienza specifica, se non della maternità (che magari anche un uomo potrebbe sperimentare, io non ne sono sicura ma non lo escludo a priori), certamente della gravidanza.
E mi sembra una cosa ben diversa, portarsi un figlio nella pancia per nove mesi, rispetto al riceverlo fra le braccia dopo che
è nato.

Per millenni questa esperienza ha sovradeterminato il femminile. Adesso, per noi qui, sembra diventata un dettaglio su cui sorvolare.
E perché non mettere in campo anche la differenza tra fare un figlio e avere un figlio?
Differenza materiale e psichica.

Mi stupisce che così tante persone omosessuali vogliano farefigli, anziché semplicemente averne, e penso che sia dovuto alla oggettiva difficoltà di adottare.

Se il desiderio è quello di prendersi cura, crescere un piccolo, riscoprire il mondo attraverso i suoi occhi, dare opportunità, trasmettere esperienza e, perché no, anche beni materiali – allora si può fare tutto questo con un bambino generato da altri.

Tanto più che esiste già, mette già davanti ai nostri occhi una situazione di carenza: un figlio senza madre, una persona a cui manca qualcosa, che gli si può dare.

Quanto contano, nel voler fareun figlio (anche per mezzo del corpo di altri) lappropriazione, il desiderio di immortalità tramite la trasmissione di un patrimonio genetico peraltro così fragile come quello dellindividuo? (che non ha ancora neppure messo a punto una memoria vera del suo passato, altro che culto del patrimonio genetico! la genetica gli serve a sperimentare e ibridare, nella perenne tensione di creare qualcosa di meno peggio, segno che tutto quel che è stato finora è altamente difettoso e prescindibile).

Psichicamente, avereun figlio non solo non richiede di farlo, ma neanche di adottarlo.
Una maternit
à psichica è insita in ogni amore, sia esso verso lamante sia verso tutti quegli esseri che laffetto unito alla consuetudine ci fanno intendere come affidati a noi, in qualche modo.

Per vivere la maternità non è necessario passare attraverso la gravidanza, e neanche essere, allanagrafe, madre di qualcuno.
I miei figli sono state le persone che ho amato, ha detto Violette Leduc. La mente umana, il sentire umano, hanno possibilit
à infinite di sperimentazione, poeti e artisti lhanno sempre saputo, ma per usare queste possibilità non è necessario essere poeti o artisti, basta essere umani.

Per esempio, non esiste una riflessione collettiva sulla maternità, questa condizione/stato dellessere così abusata, così mitizzata e vilipesa, sovraccaricata e svuotata.

Io mi chiedo se le mamme lesbiche sono come le giovani donne etero che spingono passeggini che sembrano fuoristrada, così spaurite e aggressive e spossessate delle comuni conoscenze sul corpo proprio e dei figli da doversi rivolgere a un pediatra per sapere cosa dargli da mangiare, e quanto
Io spero che siano diverse.
Io spero che siano più simili a mia madre, che mi prendeva poco in braccio perché lavorava, e mi coccolava ancora meno, ma quando mi teneva sentivo la saldezza del suo braccio, e quando parlava, la sua autorità tranquilla mi dava forza.
E comunque continuo a sentire anche la voce ribalda delle figlie, anche delle pi
ù genialmente sciagurate, come Valerie Solanas:
Ma perché dovrebbero esserci delle generazioni future? A che scopo? Quando la vecchiaia e la morte fossero eliminate, perché continuare a riprodursi?
In una comunit
à ideale, potremmo discutere di questo.
Qualcuna mi direbbe che fare figli
è credere nella vita.
Io opporrei un
altra versione: fare figli è voler raccontare ancora una volta la vecchia storia, per raccontarla meglio, per farla finire meglio.
Vuol dire che finora la solita vecchia storia lasciava a desiderare, era fallata, bisognosa di rettifiche.
Ma se la storia, così come è stata raccontata a me con il linguaggio del corpo di mia madre, è una storia compiuta e felice – che bisogno ho di ripeterla?
Io sono il compimento, e allora posso anche finire.
Non è così, che finiscono anche i cicli delle reincarnazioni?

In una comunità ideale si potrebbe conversare, senza che fantasmi di terrificanti paure si ergessero dietro le parole, a separare i parlanti.
Si potrebbe essere molteplici, per davvero, e complesse, e godere della nostra complessit
à.

Amore, matrimonio e lessico

Il matrimonio è un topos romantico. Le nozze, la promessa solenne davanti a spettatori che diventano testimoni dellAmore. La fusione, il nido, due cuori e una capanna.
Il vestito bianco, l
anello, il buttar via (come in una festa tribale) enormi somme di denaro per eternizzare lattimo. Un giorno da protagonisti, forse lunico nella vita, forse neanche quello, a giudicare dalla serialità della cerimonia.
Un paradosso, un ossimoro.

Prima che diventasse tutto questo, il matrimonio era un contratto tra due uomini, lo sposo e il padre della sposa, avente a oggetto il corpo della sposa e i suoi eventuali frutti, oltre naturalmente ai beni delle due parti.
Si dice che nel XII secolo la poeta Maria di Francia abbia decretato, a giudizio di una cour damour, che non può esservi amore tra i coniugi.

La società eterosessuale non ha ancora risolto caritatevolmente il dilemma dellinconciliabilità tra amore e matrimonio. Ha trovato una valvola di sfogo alla pressione omicida con il divorzio. La prostituzione, grande risorsa per la sessualità maschile inarticolata, esisteva prima ed esiste anche adesso, certamente non in minor grado.

Il matrimonio etero non sembrerebbe possedere i requisiti di un meraviglioso modello da imitare.
Eppure lo si imita.

A cominciare dal deliquio romantico: io voglio, voglio fortemente sposare X, perché sono tanto innamorata.
Voglio che il mondo veda e riconosca il mio amore, che gli amici piangano, gli ospiti brindino.
Voglio la lista di nozze.
Per le più sobrie, basterà una registrazione allanagrafe.

Poi, si sa come vanno le cose, nel giro di qualche anno sopravviene la crisi, o il disamore.
Scopro che i miei motivi per sposare X non erano così validi, che non è quella persona meravigliosa che credevo, che non siamo fatte una per laltra, che ho richiesto da lei cose impossibili, o cose che io stessa dovevo dare a me stessa.ecc
E allora divorziamo. Non c
’è problema.
Gli etero lo fanno tutto il tempo.
A ciò si aggiungano, in caso di figli e/o proprietà condivise, complicazioni, rancori e strazi potenzialmente infiniti.
E per dirimere queste matasse psichico-economiche occorrono leggi, per le separazioni ancora pi
ù che per i matrimoni, e uffici legali, e apparati tribunaleschi.

Mi va benissimo, ma combattere per questo? No grazie.
Perché questa confusione?
Tra i pasticci e le immaturit
à sentimentali private, e ciò che è pubblico e sociale, come i diritti di fronte alla legge?

Perché il mio diritto a non essere tartassata socialmente ed economicamente dallo stato quando sto male, o sono nei guai, o muoio – dovrebbe per forza passare da questo tipo di farsa?

Se io convivo con una persona, alla quale voglio abbastanza bene da voler condividere con lei casa, oggetti, tempo e conversazioni – e se voglio tutelarla da possibili espropri e umiliazioni, devo per forza stendere il nostro rapporto sul letto di Procuste del matrimonio?

Mi si dirà che non basta essere cittadini di uno stato per godere di diritti. Ci sono diritti che pertengono alla famiglia e solo a quella.
Su questo punto, contro questo, bisognerebbe lottare.

Perché famiglia, perché coppia?
Perch
é non anche, volendo, comunità, gruppo amicale?
Penso alle amiche che, in morte, hanno lasciato i loro beni ad altre amiche e a gruppi, e ai problemi che i legittimi eredi hanno avuto.

Ovvero, tornando al singolo, che dovrebbe essere il solo detentore di ogni diritto: perché non posso disporre liberamente di materie come leredità, la tutela in caso di incapacità eccetera, ma devo per forza passare dalla griglia di un istituto ricalcato sul matrimonio?

Per me il matrimonio, come la religione, dovrebbe essere una faccenda privatissima.
Da non ostentare.

Lidea che lo stato debba riconoscereil mio legame affettivo con qualcuno mi ripugna profondamente.
Io chiedo allo stato di non discriminarmi, e alla comunit
à di rispettarmi. Non di approvare le mie scelte affettive.
I miei legami affettivi sono cose personalissime, sacre e misteriose, a volte anche a me stessa, fonte di perenne meraviglia – chiedere il
riconoscimentodi questo è grottesco.
Oppure semplicemente fuffa sentimentale.

Sarebbe possibile realizzare la non discriminazione senza chiamare in causa il matrimonio, ma usando prassi e norme già esistenti.
Per esempio: ognuno di noi ha una tessera sanitaria, dalla quale risulta che ha diritto all
assistenza, e che fa capo a un archivio in cui vi sono i dati sul medico di base ecc– basterebbe aggiungere in questo archivio i nomi delle persone (una, o meglio ancora più duna) a cui il singolo intende affidarsi in caso di sua incapacità per motivi di salute.
Lo stesso archivio potrebbe facilmente contenere i dati del cosiddetto testamento biologico: eventuale donazione di organi, tipo di sepoltura, accettazione o rifiuto di cure in situazioni estreme, ecc

In quanto al regime patrimoniale e alleredità, anche in questo campo non è impensabile che una dichiarazione congiunta, insieme a fondare un obbligo fiscale congiunto, possa anche costituire la base per il trattamento fiscale delleredità, arrivando così a non discriminare tra coniugi, che sono esenti dalle tasse di successione fino a una certa soglia, e conviventi, che invece non lo sono.

Ovviamente tutto questo richiederebbe un lavoro di civilizzazione di tutti.

Nella società etero la famiglia gode di certe tutele, sociali ed economiche, che possiamo considerare diritti, ma che in alcuni casi sono semplicemente, di fatto, privilegi.

Se mi appaiono giustificate le tutele economiche per chi ha dei bambini da crescere, non altrettanto sensati sono i privilegi accordati ai coniugi in quanto tali, senza figli o con figli ormai cresciuti. Tipo la reversibilità.

La pensione di reversibilità è un istituto patriarcale basato sul principio che luomo lavora e la donna sta a casa. Se muore il capofamiglia, la moglie non rimane completamente priva di reddito perché percepisce una parte della pensione del marito. Questo rimanda ovviamente alla diade marito/moglie in quanto due metà, gerarchicamente ordinate, di unentità sola.

Nelle coppie non eterosessuali, succede la stessa cosa?
Io non credo. Spero di no.

La reversibilità in quanto istituto per la protezione delle vedove, che poi per pari opportunità beneficia anche i vedovi, così com’è andrebbe semplicemente abolita.
Magari sostituita con forme previdenziali che permettano un uso razionale (per quanto remota possa sembrare l
ipotesi della razionalità negli interventi pubblici) dei contributi versati, magari integrati da una giusta funzione assistenziale pubblica, in caso di comprovato bisogno, o quando il decesso di un partner metta a rischio la famiglia, p.es. se in una famiglia – etero o omosessuale non importa – con figli piccoli, muore la persona che contribuiva maggiormente al reddito famigliare, situazione questa che comunque avrebbe un orizzonte temporale non illimitato.

Io quando sento usare le parole mogliee maritoparlando di coppie omosessuali, mi vengono i brividi. Se penso che possano essere applicate a me e alla mia compagna, mi assale una rabbia, una voglia di tirare uno schiaffo.

Per me moglievuol dire una donna sposata con un uomo.
Vuol dire tante cose, alcune delle quali romanticamente pensabili anche nell
ambito delleros lesbico. Una donna che ti aspetta, una forma femminile accogliente e sessualmente disponibile, una certezza damore, la madre dei tuoi figli, anche immaginari, il riposo della guerriera.
Sono suggestioni che non hanno molto appeal per me, e comunque non le ho mai applicate alla mia compagna, sarebbe stata una mancanza di rispetto e un grottesco misconoscimento delle sue reali dimensioni di persona, oltrech
é del nostro rapporto.

Sarò allantica. Magari tra ventanni mogliesarà semplicemente una donna sposata, non importa con chi, uomo o donna o altro.
Magari tra vent
anni questa parola e la sua coniuge, marito, avranno perso ogni memoria semantica del loro passato millenario.
Comunque per me adesso ancora no.

Pensare coppie formate da due mogli o da due mariti è ridicolo quanto le immagini di due Barbie e due Ken, comunemente usate per propagandare proprio questo, due mogli e due mariti.
Due stereotipi identici accoppiati tra s
é.

Moglie/marito è una diade inseparabile.
Monique Wittig ha osato affermare, qualche decennio fa, che perfino donna/uomo
è una diade inseparabile.
Che se si spezza la diade, i due termini non hanno pi
ù senso, non esistono più.
Che una donna che si sottragga a quel rapporto con l
uomo non è più una donna.
È
qualcosaltro. Un essere umano completo, per esempio.
Che noi, le donne che di quel rapporto l
ì non sappiamo cosa farcene, siamo qualcosaltro. Esseri umani completi che si danno un nome da sé.

Questioni nominali?
No, questioni sostanziali.

Perché non usiamo altre parole, per dire la nostra realtà altra?
Siamo gi
à così uguali a quello che non volevamo essere?

Io quando parlo della mia compagna dico compagna.
Sarà banale, ma mi appare accettabile.
Compagna di vita, compagna di strada, compagna di giochi, compagna di avventure.
C’è una parità in questa parola, e un margine di neutralità, di non definizione che meglio rispondono al reale e rispettano il mistero di quella che mi è compagna, ma non si vede attribuito nessun ruolo specifico dal mio esserle compagna, alla pari.

Altri useranno altre parole, non pretendo di saperla più lunga.

Alla fine, si potrebbe anche soltanto dire il suo nome. Elei, lunica e la sola, come ogni essere umano ma di più – perché imbrigliarla in una categoria?
Solo per comodit
à si fa, perché non tutti sono abbastanza attenti da capire che quando parlo di lei chiamandola per nome dico già chi è, lei, per me.

E comunque, ora che la legge sulle unioni civili sembra stia per diventare realtà, pur dopo lo stralcio delle adozioni, io mi sono accorta che, se proprio devo, per evitare tartassamenti, passare da quel giogo, allora preferisco essere civilmente unita alla mia compagna, piuttosto che sposata.
E se qualcuno si permetter
à di chiamarci mogligli darò, civilmente, un ceffone.

A suo tempo, noi vecchie abbiamo faticato a chiamarci femministe e lesbiche. Perfino la parola donnapoteva presentare difficoltà, in anni e contesti culturali in cui si era ancora ragazze, o perfino signorine.

Personalmente, mi sono abituata a lesbicaper realismo: sapevo che, tanto, quellinsulto lì mi avrebbero rivolto, e quindi tanto valeva affrontarlo a testa alta e trasformarlo in parola corrente.
A un certo punto le lesbiche pi
ù giovani hanno cominciato a definirsi gay.
Adesso una variegata popolazione si definisce queer.
So che esistono teorie queer, che non sono mai riuscita ad approfondire perché mi annoiano profondamente e fanno scattare in me la voglia di buttarmi su un buon romanzo.
L
altro giorno una ragazza, durante un incontro in una sede lgbtq ecc.. ha sostenuto che in Italia queer non si capisce cosa voglia dire, il che è verissimo. Ha quindi avanzato la proposta che la comunità non si definisca queer, bensì frocia.

Impossibile non pensare: ma se in una lingua non esiste una parola adatta a definire una comunità, se dopo anni ancora bisogna prenderla a prestito da altri paesi, altre storie, o da sottoculture maschili in cui le donne non hanno parte alcuna – questa comunità esiste?

O forse sarebbe più corretto chiedersi: esistono, le giovani donne che vogliono chiamarsi come una sottocultura maschile?

Io non ho le risposte. Per fortuna sono abbastanza vecchia da essere solo io.

Torino, marzo 2016